Attualità
26 Novembre 2014

L’album italiano del secolo

di Redazione | 7 min

Il bello di non avere un blog tematico è proprio questo: poter saltare allegramente di palo in frasca.

Così, mentre in molti mi hanno chiesto un post sulle elezioni regionali (regionali?! Ma io, dopo aver visto il numero di voti anziché le percentuali, pensavo fossero le elezioni del presidente del circolo La Bocciofila di Viconovo!), io vi parlo di musica.

Mentre tutti (dal barista al discografico, su, su fino a Dio) ripetono le solite frasi a riguardo – la musica italiana è morta/nessuno vende più dischi/i cantanti di una volta erano meglio/la musica italiana è iniziata e finita con Luciano Tajoli/ecc…);

mentre molti (troppi, troppissimi) comprano solo i dischi di Vasco Rossi, il quale da vent’anni è a quel punto della carriera in cui potrebbe anche incidere un’ora e mezza di rutti e conati con sotto tre accordi power di Fender Strato distortissima alternati con assoli virtuosi completamente fini a se stessi, e vendere comunque un triliardo di dischi (cioè esattamente quello che fa da vent’anni);

mentre molti pensano che l’unica fonte di musica nuova sia costituita dai talent show, dove la riuscita del prodotto televisivo non è una cosa importante, ma l’unica e sola cosa che conta e dove vengono sfruttati a questo pro i sogni di parecchi ragazzi virtuosi e altrettanti esibizionisti senza uno straccio di talento per poi:

  • abbandonarli quasi tutti al loro destino una volta spenta la lucina rossa della telecamera;
  • lanciarne qualcuno con un progetto commerciale deciso a tavolino per mostrare che i talent servono e garantirsi nuova carne da macello;
  • attribuirsi il merito dell’affermazione di rarissimi casi di fuoriclasse;

mentre gli indie/hipster/radical chic di questa grandissima fava continuano a sbandierare ascolti di band o cantautori anch’esse/i indie/hipster/radical chic di questa grandissima fava, che fanno cagare a loro per primi, ma bisogna dire che ascolti tizi che si presentano con nomi indie/hipster/radical chic di questa grandissima fava, tipo Le luci di posizione della Fiat Duna beige o Premolare o Brunozzi Spa, o sei un bifolco, plebeo, commerciale e ti puzza pure il fiato;

mentre tutti i passatisti (i vecchi solo per pigrizia, per posa i giovani) ascoltano o dicono di ascoltare solo Guccini e De Andrè, che, chiariamo, sono due miei maestri (a uno ho fatto irruzione in casa, l’altro ce l’ho tatuato su un braccio) e, da rinnegatori per partito preso di tutto ciò avvenuto o creato dopo il 1977, ignorano quanto di buono sia stato prodotto anche dopo (e soprattutto: se aspettiamo che nascano altri due così – o come Dalla, Fossati, Gaber, Bertoli, Graziani, Gaetano, Conte, Finardi, Lolli – facciamo in tempo a estinguerci), allargando lo stesso atteggiamento agli stessi reduci viventi degli antichi fasti con frasi tipo “De Gregori dopo La donna cannone non ha più fatto nulla di decente”, per poi ammettere di non aver ascoltato nulla di ciò che sia stato cantato da lui stesso negli ultimi 35 anni (che, per la cronaca, è gigantesco come mole e importanza);

insomma, mentre quasi tutti coloro che conosco prendono posto a sedere nelle categorie di cui sopra, ci sono tre individui che, zitti, zitti, quatti, quatti, stanno facendo la storia della musica italiana contemporanea: Fabi Niccolò, Gazzè Massimiliano e Silvestri Daniele. Da quasi vent’anni non sbagliano un disco (come diceva Carboni su Dustin Hoffman e i film). Da quasi vent’anni non sprecano, che io ricordi, una canzone solo per riempire un disco, né una strofa solo per riempire un brano, né un verso solo per riempire una strofa. Da quasi vent’anni danno dignità alla lingua italiana con fine ricerca lessicale, ma che non sfocia mai nel pavoneggiamento altezzoso del “parolone”, alternando momenti di poesia pura, ma mai fastidiosamente mielosa, ad altri di denuncia sociale senza mai, e dico mai, cadere nella retorica o nel qualunquismo attira-applausi.

E dopo quasi vent’anni che fanno? Si incontrano al bar, ordinano tre spume e dicono “dai, facciamo il disco del secolo”. E il bello è che lo hanno fatto davvero!

Il padrone della festa è l’album italiano del secolo (dal 2000) per distacco. Finora, certo, ma ho la sensazione netta che lo rimarrà serenamente fino al 2100. E’ stato un sospetto avuto fin dalla decisione dei tre di entrare in studio insieme. Ascoltandolo una prima volta il dubbio si è iniziato a radicare. Dopo un secondo ascolto, ancora di più. Al duecentoquarantatreesimo passaggio in loop sul mio impianto diciamo che fosse abbastanza evidente. Ma – se non brevemente in un’altra testata presso la quale collaboro – non ne avevo ancora scritto. Aspettavo una cosa: vederli dal vivo. E il concerto visto a Modena lo scorso 21 novembre con il fido Paolino Franceschini (proseguito nel back stage a firmare autografi a sventurate fans insieme a loro tre e a parlare di Alfio Finetti a Max Gazzè, giuro) è stata la goccia che ha fatto debordare il vaso delle mie convinzioni. “Ma a che roba stiamo assistendo?!”, ci dicevamo con gli occhietti sognanti io e Paolino durante il concerto. Tanta, tantissima roba, come diciamo noi gggiovani. Il Pala Panini era pieno come un uovo di bella gente. Ma non per modo di dire: quasi sempre il pubblico “rassomiglia” all’artista che lo crea e il dato lampante balzatomi all’occhio in quel palazzetto è stato che il pubblico di tre persone per bene erano 10’000 persone per bene. E con “per bene” intendo proprio le basi: educati, civili e sensibili –perché le facce su certe canzoni dicevano tutto e, datemi pure dello snob, ma, fermo restando che tutte le emozioni meritano rispetto e hanno valore, ritengo fermamente che chi si emoziona su L’amore non esiste sia di base una persona un po’ più interessante di chi si commuove con una canzone a caso dei Modà. Insomma, ripeto: bella gente. Va da sé che l’energia positiva in quelle quattro mura abbia agito da toccasana “contro il logorio della vita moderna” (Ernesto Calindri docet). Perché ci sono artisti che salgono sul palco a timbrare il cartellino, altri che vengono portati in scena di peso e poi riposti nell’apposito vano e, pur ormai incapaci di intendere e di volere, infiammano platee di mentecatti e nostalgici (o mentecatti nostalgici) a cui basta un “eeeehhhh” per avere un orgasmo multiplo. Ci sono emeriti coglioni che si atteggiano dall’alto di una cippa per aver imbroccato un pezzo orecchiabile. Ci sono ex baristi che latrano parole a caso su due accordi calanti venendo accolti come dei messia perché loro “hanno avuto il coraggio di destrutturare la forma canzone e l’interpretazione”, ma in realtà semplicemente non sanno scrivere e non sanno cantare. E poi ci sono quelli che vanno sul palco e creano la magia. Senza voler strafare, ma di fatto strafacendo. Portando per mano 10’000 individui a sentirsi parte di un tutto. Cantando e suonando da Dio, ma senza eclissare l’emozione con la tecnica fine a se stessa. Sfoderando un pozzo di San Patrizio di canzoni che aspettano solo la solita storicizzazione (o la morte dell’autore, perché in Italia va spesso così) per essere riconosciute universalmente come capolavori. Attingendo dai repertori individuali, scambiandosi le canzoni, reinventando gli arrangiamenti, mettendo alcuni brani al servizio di giochi scenici e, a intervalli regolari, sfoggiando ciò che la loro collaborazione ha prodotto. Tre ore scarse di canzoni oneste, con dentro concetti onesti, suonate con onestà. E io ogni tanto guardavo Paolino per vedere nei suoi occhi l’onestà di un’emozione, non avendo uno specchio a disposizione. E la vedevo, nella faccia di un amico vero che regalandomi il biglietto per quel concerto mi ha regalato acqua fresca in mezzo al Sahara. Che sul cambio di tonalità di Lasciarsi un giorno a Roma (“…qual è il grado di dolore che riesci a sopportare…”) è venuto giù il palazzetto e avessi avuto in mano il telecomando del tempo avrei premuto Pausa lì, in quel preciso istante. Poi nei camerini a chiacchierare con loro, con naturalezza, perché, come disse Faso degli Elio e le storie tese di James Taylor, ognuno di loro somiglia alle loro canzoni. E davvero non trovo modo più esaustivo per descriverli.

Perché l’amore non esiste, è vero, ma esistiamo io e te e la nostra ribellione alla statistica.

Perché da qui passeranno tutti fino a quando c’è qualcuno, perché l’ultimo che passa vale come il primo.

Perché la cima appare sempre un po’ più in su e il sole brucia chi sta fermo di più.

Perché io spero che esista anche un Dio delle piccole cose che sappia i silenzi mai diventati parole.

Perché ciò che ti riguarda mi riguarda e ciò che lo riguarda ti riguarda, se siamo ammanettati tutti insieme alla stessa bomba.

Perché il sasso su cui poggia il nostro culo è il padrone della festa. Ed era ora che qualcuno ce lo ricordasse.

Se ancora qualcuno è in grado di produrre un disco del genere, se qualcuno è ancora in grado di ascoltare un disco del genere, significa che la merda non ha ancora superato la punta del mento. E non parlo solo di musica.

Perché questa povera vecchia signora stuprata e umiliata che è oggi l’Italia, si salverà solo grazie a chi saprà ancora avere orecchie e anima per accogliere robe così.

 

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