Pensieri stringati
29 Ottobre 2014

Numero 7

di Paolo Simonato | 5 min

Esco di casa.

Come al solito un istante prima di partire mi accerto che l’abbigliamento che ho scelto sia adeguato al clima della giornata; inoltre verifico di avere messo la banconota da 10 nella tasca dei pantaloncini, perché dopo devo passare dal meccanico a ritirare la bicicletta.

Mi avvio quasi timidamente, domandandomi se anche oggi dovrò fare i conti con una porzione di fatica extra, a causa dell’alta percentuale di umidità presente nell’aria di questo ottobre anomalo e appiccicoso.

E’ la mia pelle a confermarmelo già dopo i primi movimenti: prima ancora di imperlarsi di sudore sembra bagnarsi per l’acqua che raccoglie nel movimento, o addirittura che attraversa.

Intravedo Luca in lontananza, riconoscendolo dal passo prima ancora che dalla fisionomia; ci salutiamo, ci abbracciamo senza smettere di correre (un’arte che si mette a punto solo dopo anni di esperienza) e decidiamo di fare il classico giro della mura.

Ci dirigiamo quindi verso l’angolo di Alfonso d’Este dove nella Palazzina dei Bagni Ducali hanno sede gli Uffici dell’Assessorato della Cultura e del Turismo.

Per un paio di secondi ci specchiamo nelle ampie vetrate, e sia io che Luca scrutiamo il nostro riflesso. Subito dopo, però, ciascuno smaschera il momento di vanità dell’altro, e ci troviamo a ridere insieme, in maniera complice.

“Attenzione che Narciso ha fatto una brutta fine” ammonisco io.

“Annegato, ricordo bene?”.

“Annegato oppure, secondo altri, suicida con una spada” rispondo mentre affrontiamo la breve salitella che ci porta sulla parte alta della Mura in via Baluardi. E proseguo:

“Narciso è un giovane di grande bellezza che fa innamorare tutti e respinge tutti. Un suo spasimante per questo si uccide. Il mito vuole che la sola persona di cui Narciso sia capace di innamorarsi sia il giovane che vede riflesso nell’acqua, e che a sua volta muoia struggendosi per la disperazione di non poterlo possedere, ignaro che quel giovane è lui stesso”.

“E il fiore cosa c’entra?”

“Credo che nel luogo in cui è morto Narciso sia nato un fiore, a cui è stato dato il suo nome”.

Siamo dalle parti del Baluardo dell’Amore, e notiamo come alla vicenda di cui discorriamo faccia eco la toponomastica del luogo.

“A proposito di eco” aggiunge Luca “sbaglio o esiste una versione della storia in cui è presente anche la ninfa Eco?”.

Di questa variante ho ricordi più vaghi, invito il mio compagno a raccontarmela.

“Non so se la ricostruisco bene; ma credo che anche Eco si innamori perdutamente di Narciso, e che respinta si sia consumata dell’amore per lui, fino a che di lei non è rimasto altro che la voce che ripete per le valli, all’infinito, ciò che le viene detto”.

“Quindi c’è anche questo strano intreccio con la storia della ninfa Eco…” faccio io.

“In fondo non è così strano” ribatte il mio compagno “se ci pensi sono due figure che hanno in comune la ripetizione, ma su due canali sensoriali diversi: Narciso per la vista e Eco per l’udito”.

Come al solito Luca riesce a sorprendermi con delle osservazioni solo apparentemente banali.

All’inizio non riesco a fare altro che dirgli che non ci avevo mai pensato. Ma come sempre le idee si stimolano a vicenda, cosicché mentre alla nostra destra scorre il retro delle vecchie carceri di via Piangipane mi viene in mente qualcosa:

“Si potrebbe dire che sono entrambi esempi di forme di esistenza mancata; forse il mito ci vuole insegnare che passare la vita a tenere fuori dalla propria affettività tutti o viceversa esistere solo in funzione degli altri è comunque una ripetizione e quindi è sterile, conduce alla morte”.

“Sì” prosegue Luca “sono storie, opposte e complementari, di fallimenti nel cercare la propria identità: noi non siamo al mondo solo per noi stessi e non siamo al mondo solo per gli altri”.

Ferrara accompagna le nostre digressioni e la fatica dovuta all’elevata umidità non si fa più sentire; ci domandiamo se per caso anche l’origine della parola ‘narcosi’ abbia a che vedere con Narciso; potrebbe esserci un legame dovuto all’effetto di un estratto dal fiore, oppure – congetturiamo – la radice comune delle due parole suggerisce simbolicamente il torpore, la chiusura verso il mondo di chi è troppo preso da sé stesso.

“Vabbè, ma non esageriamo con questo atteggiamento quasi moralistico; in fondo una sana dose di narcisismo va anche bene” sbotta Luca.

“Sono d’accordo” dico io. E racconto un piccolo episodio relativo al meccanico da cui devo ripassare tra breve.

“L’altro giorno ho portato la bicicletta ad aggiustare e il meccanico, che io non conosco, mi ha chiamato ‘dutor’. Sarà sciocco, ma mi ha fatto piacere che sapesse che sono un medico; ho pensato che ormai, dalle mie parti, sono abbastanza noto”.

“Certamente” conclude Luca “e non ci vedo nulla di male nell’esserne contento”.

E’ il termine della nostra chiacchierata ambulante, che ci sembra essere stata oggi ancora più che in altre occasioni stimolante e piacevole.

Ci accomiatiamo dandoci appuntamento per domani.

Prima di rientrare a casa effettuo la piccola deviazione per raggiungere, sempre di corsa, la bottega dove l’altro giorno ho depositato la bici. Mi affaccio alla porta e per un attimo mi soffermo a assaporare l’odore di grasso, gomma e olio che impregna il minuscolo ambiente e – si direbbe – perfino il suo proprietario.

Il quale, facendosi strada tra biciclette appese e accatastate ovunque mi apostrofa:

“Ah, dutor, tiè bela chi” e mi porge l’avambraccio invece della mano per evitare di imbrattarmi.

“A ghiera un bùs in tlà camaradaria, e aiò sostituì anc al coperton parchè a gliera vec”.

“Bene” faccio io pensando, come sempre mi accade in questi casi, che mi dispiace non sapergli rispondere nello stesso idioma.

Lo pago e sto per andarmene, ma non riesco a trattenere la curiosità:

“Mi scusi, ma come fa a sapere che sono dottore?”

Lui mi guarda perplesso e fa:

“Ah parchè iet un dutor dabon?”.

“Beh, sì…” rispondo io non senza un certo imbarazzo.

“Sa vot ca sava mi. Mi a ciam dutor tùti!”

“Ah, ecco…” rispondo.

Lo ringrazio per la riparazione e mi allontano meditabondo, portando a mano la mia bicicletta aggiustata.

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