Eventi e cultura
6 Ottobre 2014
Berger: “Necessario chiedersi perché gli Stati Uniti continuino a sostenere il governo israeliano"

La speranza di cambiare il mondo

di Redazione | 4 min

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(foto di Lucia Ligniti)

di Anja Rossi 

Qual è la comunanza tra John Berger e Teju Cole? Tra il grande critico d’arte, scrittore e intellettuale britannico e il giovane scrittore statunitense di origine nigeriana? E cosa succede quando questi due scrittori si incontrano sul palco di un teatro? Nel terzo e ultimo giorno di festival di Internazionale, il teatro Comunale di Ferrara ha ospitato l’incontro ‘Quel che abbiamo in comune’, una conversazione tra John Berger, Teju Cole e la giornalista Maria Nadotti sulla scrittura, sulla pittura e su tutto quello che lega insieme le arti.

La conversazione tra i due scrittori inizia analizzando l’importanza dell’appartenenza geografica nel proprio lavoro. Se per Cole l’appartenenza nazionale è importante perché “è una sorta di consolazione locale, ma non è tutto”, per Berger non ha poi molta rilevanza: “fin da giovane l’ho sempre vissuta così; ero sempre qualcuno che veniva da un’altra parte”. L’appartenenza territoriale diventa un passaggio diretto per parlare del concetto di appartenenza con la lingua, e qui i due scrittori si incontrano. Per entrambi il linguaggio può diventare una patria, un luogo di appartenenza reale, e Berger considera il concetto di madrelingua. “La madrelingua, o lingua madre, è un qualcosa di vivo, e consiste in aspettative che non hanno ancora trovato la loro parola. La madrelingua ti suggerisce altre parole, qualifica quelle che stai per dire, oppure le critica. In fondo, se mi chiedessero che tipo di scrittore sono Io sono un figlio di puttana, dove la puttana è la madrelingua”, scherza con il pubblico l’autore di “Ways of seeing”.

Si passa poi ad addentrarsi sul rapporto tra scrittura e altri linguaggi, come la fotografia o la pittura, per entrambi gli scrittori molto importanti nel loro lavoro. “Ho scritto e disegnato quasi tutta la vita, fin da quando ero piccolo – racconta Berger -. Ho notato che con il tempo e con l’esperienza, disegnare mi è diventato più facile. La mano e l’occhio hanno imparato qualcosa che rende un po’ più facile riprodurre ciò che desideri. Invece per me scrivere è ancora difficile tanto quanto ho iniziato, perché disegnare è una attività manuale come quella del ciabattino o del pianista, in cui le tue mani si rendono più pratiche. Scrivere invece non è artigianale e uno continua a rimanere quel principiante che è”.
Non mancano considerazioni anche sul versante politico e sulla loro visione della Palestina, luogo che entrambi gli scrittori hanno vissuto da vicino, Berger nel 2003 e Cole quest’anno. “Da John Berger – racconta Cole – ho appreso la necessità di andare in un posto per conoscerlo, contro l’illusione di conoscerlo solo dalla lettura e dai nuovi mezzi di comunicazione. La scrittura di Berger mi ha aperto gli occhi sulle cose; bisogna incarnarsi in un posto per essere umani, e il modo migliore forse non è leggere, ma condividere un pasto con quelle persone”. Sulla questione palestinese, Berger usa termini più forti. “Parliamo della persecuzione palestinese. Al giudizio morale su questa situazione non occorre aggiungere nulla, quel che invece è necessario chiedersi e pensare è perché sia ancora possibile che gli Stati Uniti continuino a sostenere il governo israeliano. È qui il punto cruciale. E come si fa a cambiare questo? – e si rivolge al pubblico -. A questo dovete pensarci voi, lo dovete decidere voi”.

L’incontro si conclude ricordando un articolo di Berger su Internazionale, su Chaplin e l’arte del cadere in cui lo scrittore evidenziava l’arte di “cadere e rialzarsi, uguali e diversi da prima” e quindi collegandosi al tema della speranza. Qui Berger analizza anche la crudeltà umana. Come mai gli esseri umani sono capaci di commettere certe atrocità? Inizia quando si comincia a creare una categoria tra noi e loro. Bisogna fare attenzione a questo, perché ‘loro’ implica che siano meno umani di noi e che possano essere trattati con una totale mancanza di umanità. La speranza non va confusa con l’ottimismo. La speranza si ha quando si continua a mantenere la fede ai morti nonostante quello che hanno sofferto, e ricordarsi dei successi umani emersi dallo sforzo e dalla lotta. La speranza è collegata al senso di complicità con gli innumerevoli altri”.

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