Recensioni
2 Ottobre 2014
Esposizione delle opere di Giacomo Manzù e Marino Marini alla Villa dei Capolavori

‘Gli ultimi moderni’ a Parma

di Redazione | 4 min

di Maria Paola Forlani

Per la prima volta la scultura è protagonista nella Villa dei Capolavori sede della Fondazione Magnani Rocca a Mariano di Traversatolo (Parma).
La Fondazione, che già ospita nella collezione permanente capolavori marmorei dei più grandi scultori del Novecento, rappresentata da Giacomo Manzù e Marino Marini che negli anni cinquanta e sessanta, dopo i riconoscimenti nazionali, diventano anche i campioni dell’arte italiana all’estero: le loro opere entrano così a far parte dei maggiori musei di tutto il mondo e i due artisti conquistano l’attenzione del collezionismo e del pubblico.
A cura di Laura D’Angelo, Chiara Fabi, Stefano Roffi, (catalogo Silvana Editoriale) la mostra aperta fino all’8 dicembre 2014, intende approfondire questa vicenda, sinora poco indagata dagli studi, proponendosi di individuare gli elementi che favorirono il grande successo di Manzù e di Marino. Un’ ampia selezione di sculture, dipinti e lavori grafici realizzati dai due artisti negli anni compresi tra il 1950 e il 1970 documenta la loro fiduciosa apertura verso le molteplici lingue della modernità e la capacità dimostrata da entrambi nell’incontrare il gusto di un colto e sofisticato mercato internazionale.
Il percorso espositivo si apre con due opere emblematiche, il Grande ritratto di signora di Manzù e Cavallo e cavaliere di Marino, entrambe del 1946, provenienti da prestigiose collezioni private: due sculture in grado di introdurre gli aspetti più importanti delle ricerche compiute dai due artisti, dal riferimento a Medardo Rosso per Manzù, alla questione della serialità posta dalle sculture di Marino. Seguono grandi bronzi, rilievi, dipinti e lavori grafici, in una successione che tiene conto dei temi maggiormente praticati da entrambi gli scultori nei decenni presi in esame.
Oltre al tema della danza che accomuna i due artisti, oltre ai celeberrimi Cardinali di Manzù e ai Giocolieri di Marino, una speciale attenzione viene dedicata ai ritratti; non soltanto per sottolineare l’interesse che entrambi nutrirono nei confronti di questo genere artistico, ma anche per fornire una chiave di lettura della loro personalità attraverso i nomi degli artisti, dei galleristi, dei collezionisti e della personalità che ne sostennero e accompagnarono l’attività lungo gli anni cinquanta e sessanta, quali Papa Giovanni XXIII, Igor Stravinnskij, Marc Chagall, Jean Arp, Mies van der Rohe, John Huston, Kokoscka, il cardiochirurgo Barnard, oltre alle mogli, Inge Manzù e Marina Marini.
Marino Marini (Pistoia 1901 – Viareggio 1980) si iscrive nel 1917 all’Accademia di Belle Arti di Firenze, dove frequenta i corsi di pittura e di scultura. Giacomo Manzù pseudonimo di Giacomo Manzoni (Bergamo 1908 – Roma 1991), dopo una prima formazione artigianale e frequenza saltuaria ai corsi dell’Accademia di Verona durante il servizio militare, strinse rapporti, intorno al 1930, con il gruppo di giovani artisti innovatori che operavano in quegli anni a Milano intorno a Persico. In questo momento il suo stile è orientato sulla tradizione romanico-gotica, su Donatello e su Maillol. Ma vede Medardo Rosso, che segna una svolta decisiva, non perché egli ne adotti il disfatto luminoso impressionista, ma perché trasforma queste caratteristiche per ottenere un’espressione intima e malinconica. Negli anni della guerra aderisce a “Corrente” e comincia a creare la serie di Cardinali, delle Crocifissioni e delle Deposizioni che sono fra le sue opere più alte.
Nel 1935 Marino si aggiudica il premio di scultura alla Quadriennale d’Arte Nazionale di Roma; all’edizione successiva dell’esposizione, nel 1939, il premio di scultura è assegnato a Manzù. La carriera dei due artisti prosegue con intensità lungo gli anni Quaranta e alle mostre si succedono nuovi premi e nuovi riconoscimenti. Nel 1948 Manzù allestisce una sala personale alla Biennale di Venezia e si aggiudica il premio per una sculture italiano assegnato dal comune di Venezia; nel 1952 il medesimo premio è assegnato a Marino Marini.
È l’indomani di questi riconoscimenti che per i due scultori si inaugura la fase di maggior impegno sul fronte internazionale: le loro opere figurano nelle più importanti esposizioni allestite in Gran Bretagna, Francia, Germania e Stati Uniti e, mentre dagli anni cinquanta l’attività di Marino Marini si sposta principalmente all’estero, Manzù inizia a lavorare alla realizzazione della Porta della Morte per la Basilica di San Pietro, la cui inaugurazione, nel 1964, segna il punto di massima popolarità raggiunta dall’artista.
Nelle opere presenti in mostra sono evidenti i percorsi poetici e di ricerca dei due artisti. Marino Marini rievoca palesemente precedenti etruschi e italici e forse anche romanici, almeno nei primi anni della sua attività, intorno agli anni ’30. Ma non è un ritorno all’antico; è piuttosto cercare in esso l’essenzialità della forma. Questa essenzialità è costante nella sua opera, quali che siano i temi trattati, alcuni dei quali ricorrenti nell’arco della sua vita, come il cavallo e il cavaliere o i nudi femminili. Mentre dapprima le sue sculture sono equilibrate e calme, più tardi le forme si tendono, i cavalli si imbizzarriscono o addirittura cadono, le superfici sono graffiate, scavate, mosse, le luci sbattono sui risalti, le ombre si addensano nelle rientranze, raggiungendo alta drammaticità.
Mentre in tutta l’opera di Manzù è presente un’alta religiosità, non nel senso antico di illustrazione di idee cristiane, ma nel senso di umana fratellanza e di continua aspirazione alla pace. Perciò, anche quando affronta temi propriamente sacri, come nella porta centrale del Duomo di Salisburgo o nella Porta della morte di San Pietro a Roma, ciò che prevale è soprattutto l’umano.

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