Attualità
23 Settembre 2014

Florenzi e il vecchio Pedrini

di Redazione | 6 min

So già che io, il 21 settembre 2014, lo ricorderò.

Fra cinquant’anni mi siederò al tavolino di un bar (ci saranno ancora? Sì, ci saranno) – scostando una seconda sedia per fare accomodare il mio Alzheimer e una terza per adagiare la mia prostata ipertrofica – estrarrò un pacchetto di canne di ganja con bollo del Monopolio di Stato, ne accenderò una, toglierò il mio ampliphon bluetooth satellitare di seconda mano trovato in un centro commerciale dell’usato per non sentire una mosca volare – a parte quel maledetto fischio perenne, colpa dei nefasti chitarristi villani con cui ho suonato e delle ore di sala prove – ordinerò un Jack Daniel’s con un cubetto al barista italiano, circondato da anziani avventori cinesi (la Storia, si sa, è una ruota che gira), mi gratterò la barba lattea coi baffi ingialliti da decenni di fedele militanza al tabacco, bestemmierò di impotenza al passaggio di una ventenne scosciata perché il Cialis nemmeno nel 2064 lo passerà la mutua, butterò uno sguardo fugace al tablet del bar con i titoli della giornata sullo scongelamento dei corpi ibernati decenni prima di Berlusconi, Pippo Baudo e dei Pooh alla presenza del Capo dello Stato Giorgio Cyber Napolitano, in Piazza Matteo Renzi a Campobasso (nuova capitale italiana dopo la sanguinosa “Rivolta del Molise” del 2036), aspetterò che si crei il solito capannello di ragazzi intorno, bestemmierò di nuovo per un’altra ventenne scosciata che passa, attenderò che uno di loro urli “zitti tutti che ora Pedrini ce ne racconta una!”, prenderò fiato aspettando che l’ossigeno faccia lo slalom gigante tra enfisemi e focolai e attaccherò.

“Era il 21 di settembre del 2014, vivevo ancora a Ferrara, fu poco prima di essere deportato e incarcerato per “eccesso colposo in bestemmia creativa” dalle truppe del temibile Vescovo Negri (Ferrara era già sotto lo Stato Pontificio 2 La Vendetta? Mi domanderà qualcuno. Sì, ma ancora non lo sapevamo, risponderò amaro), avevo trentatré anni, tanti chili in meno, tanti capelli in più e l’uccello ancora in grado di guardare gli astri (risata degli astanti). Cazzo ridete? Guardate che voi adesso mi prendete per il culo, ma alla vostra età ero pieno di fregne (brusio di scherno). Ce n’era una che…(uno dei presenti mi richiamerà a non perdermi nelle solite divagazioni a sfondo erotico). Ok, ok. Allora. Era domenica e al vecchio stadio Olimpico di Roma si giocava Roma-Cagliari. Pensate che il Cagliari era allenato da un tizio che si chiamava Zeman, un gran figo, uno con la schiena dritta, che non temeva i poteri forti e fumava più di me. E nella Roma sapete chi giocava? Totti. (Quel Totti? Mi domanderanno). Sì, proprio San Totti, quello che Papa Kevin II ha beatificato dieci anni fa (stupore). Insomma, nella Roma segnò subito un tizio che non ricordo, forse Destro, sì Destro. Poi, pochi minuti dopo, accadde qualcosa che non si era mai visto prima. E che non si sarebbe mai più visto dopo. Un ragazzo giovane col numero 24, Alessandro Florenzi, il papà dell’attuale allenatore della Fiorentina, segnò di destro con un rasoterra in diagonale, un tiro secco sul secondo palo, imparabile per il portiere del Cagliari che proprio non ricordo come cazzo si chiamasse (Cragno! Esclamerà un ragazzo dopo aver consultato il palmo della propria mano con innesto sottocutaneo della Apple©). (La canna nel frattempo finirà e col mozzicone ancora ardente ne accenderò una nuova tossendo come un vaporetto).

(Pausa teatrale, attesa palpabile). Florenzi schivò uno ad uno tutti i compagni di squadra, fra cui il presidente onorario De Rossi che ancora giocava, e corse a testa bassa verso l’esterno del campo. Attraversò la pista olimpica che circondava il prato e tutti pensarono alla solita corsa verso la curva sud ad esultare con gli ultras. Invece, imponderabilmente, deviò verso lo spicchio di anello tra la curva e la tribuna. Scavalcò la balaustra a testa bassa, continuando a correre. Lì fu chiaro che avesse una destinazione precisa al millimetro. ‘Ma dove sta andando?!’ si chiesero tutti: compagni, avversari, panchine, arbitro, guardalinee, spettatori, telespettatori. Salì di corsa le scale della tribuna, cercò con lo sguardo una fila di poltroncine, poi una poltroncina sola. Si fermò. Si fece largo tra gli spettatori che nel frattempo si erano alzati increduli: in tanti hanno esultato correndo sotto la tribuna, ma mai dentro la tribuna. Ma era solo una persona che Alessandro cercava. La raggiunse, la strinse in un abbraccio di alcuni infiniti secondi, lei scoppiò a piangere. Era sua nonna Aurora che, in ottantadue anni, non aveva mai assistito a una partita del nipote, né tantomeno aveva mai messo piede in uno stadio. Ricordo come fosse oggi la testa candida, gli occhiali scuri, il vestito blu scuro a fantasia bianca, il ventaglio nero nella mano sinistra, con la destra a tenere un fazzoletto di carta per asciugare il viso dal pianto. Poi Florenzi ridiscese le scale e tornò in campo. L’arbitro, inflessibile, lo ammonì per essere uscito dal terreno di gioco, nell’eterna lotta tra applicazione delle regole e utilizzo del buonsenso. Ricordo che piansi parecchio.

Ero uno dalla lacrima facile all’epoca, mica il rudere impassibile che sono diventato ora. Sapete, maledetti voi e i vostri pochi irrispettosi anni, anch’io avevo una nonna che mi veniva a vedere quando giocavo a calcio al campo di San Bartolomeo, vicino Ferrara. E anch’io, dopo ogni gol, correvo da lei. Poi una brutta malattia, allora incurabile, me la portò via poco a poco. Io continuai a segnare, anzi: segnai molto di più. Perché lei giocava insieme a me. Nessuno la vedeva e io potevo quindi barare. Dopo ogni gol al campo di San Bartolomeo (quanti che ne ho fatti…) mi giravo verso la zona in cui si metteva sempre, col suo perenne grembiule da ‘zdora, ma vedevo solo mio nonno. Così correvo da lui e dopo il suo sorriso a testa scossa alzavo gli occhi e dicevo “grazie nonna” battendomi la mano sul cuore. Si chiamava Ivana. Era bellissima. Ho lasciato scritto che appena questa via crucis che è ora la mia vita si deciderà a finire voglio essere incenerito e sparso sul prato del campo sportivo, di fronte al posto in cui si metteva sempre la nonna Ivana. Così che l’eternità divenga un’eterna esultanza dopo un gol, davanti a lei e a mio nonno: l’apice della felicità che mi è stato concesso in vita.

Quando vidi Florenzi fare quella cosa mi misi in testa che un giorno lo avrei dovuto ringraziare.

A nome di tutti i nipoti che non hanno più una nonna da abbracciare dopo un gol”.

(Butterò giù l’ultimo sorso di Jack Daniel’s, spegnerò la canna e guarderò in faccia uno a uno i ragazzi che mi hanno ascoltato. Li scoprirò in silenzio, alcuni commossi. Poi uno mi chiederà ‘Pedrini, ma tu ce l’hai un nipote?’. Io mi alzerò faticosamente aiutandomi con un vecchio bastone di legno scuro, lo fisserò e prima di incamminarmi arrancando verso casa gli dirò ‘il nipote sono ancora io’).

Questo racconterò, un giorno.

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