Pensieri stringati
19 Settembre 2014

Numero 8

di Paolo Simonato | 8 min

Esco di casa.

Prima di mettermi in moto respiro profondamente; oggi la qualità dell’aria è diversa, non ancora autunnale ma più fresca anche solo di ieri.

Mentre mi avvio mi concentro sul mio respiro: effettuo una inspirazione profonda e sento il mio petto allargarsi, quasi sgranchirsi come un dormiglione che si ridesta dopo un lungo sonno.

Trattengo per qualche secondo l’aria dentro di me e avverto una sfumata e piacevolissima vertigine, come se il mio cervello fosse inebriato da quell’inatteso iperafflusso di ossigeno; la lascio uscire in maniera controllata, un po’ più lentamente di quanto non mi verrebbe naturale, in una espirazione lunga, più lunga che posso, che mi permetta di gustare ancora di più la boccata successiva.

Ripeto per due o tre volte questo esercizio, che mi riesce sempre più forzoso e meno piacevole; lascio quindi con sollievo che il fiato riprenda spontaneamente il suo ritmo e quello del mio passo, sincronizzandosi alle falcate.

Raggiungo Luca al solito posto, ci salutiamo, ci abbracciamo senza smettere di correre (un’arte che si mette a punto solo dopo anni di esperienza) e inizia così il nostro consueto incontro, il nostro passatempo, il nostro allenamento, il nostro scambio di pensieri stringati.

Gli racconto subito delle mie sensazioni alla partenza e della mia respirazione iniziale, quasi voluttuosa.

Le gambe e le parole scorrono con particolare facilità, oggi: quasi senza che ce ne accorgiamo ci lasciamo dietro il Torrione e la Casa del Boia e raggiungiamo il cavalcavia del vecchio palazzetto dello sport.

Lo abbiamo superato di un centinaio di metri e siamo giunti nel punto in cui alla nostra destra la continuità della mura è interrotta da una apertura che, tramite una malagevole discesa sovrastata da un piccolo arco, conduce alla sottostante via di Mura di Porta Po.

“Non ho mai capito cosa significhi quella scritta…” dice Luca distrattamente.

“Quale scritta?” faccio io.

Mi fa notare che sull’arco campeggia una iscrizione rossa, vergata forse con un pennello, come oggi non si userebbe più. E’ ormai in buona parte scrostata, ma ancora leggibile: “Birago la leggenda continua”.

Faccio quello che durante un allenamento non faccio mai: mi fermo.

Luca non capisce cosa stia accadendo, si ferma a sua volta e guarda alternativamente me e la scritta.

Riprendo a correre e cerco invano di ritrovare le sensazioni piacevoli che avvertivo fino a pochi secondi fa. Non avevo mai notato quella scritta, anche si ci sarò passato davanti migliaia di volte. Il Birago… da moltissimi anni non mi tornava in mente. Emerge prepotentemente dalla mia memoria un ricordo che mi sembra allo stesso tempo remotissimo e attuale.

Luca aspetta pazientemente che io cominci a raccontare: “Il Birago era il nome che avevano i palazzi che stanno proprio lì in fondo a quella discesa. Si trattava di una zona popolare, anzi popolarissima, abitata da persone povere e forse non sempre oneste, o perlomeno questa era la loro fama ai tempi in cui io ero bambino. La sola parola bastava ad evocare in me qualcosa di esotico, oscuro ed insidioso, come fosse il nome di un serpente velenosissimo. Fatto sta che allora si diceva che con ‘quelli del Birago’ era meglio non averci a che fare, che anche i ragazzini potevano essere prepotenti, o pericolosi. Era una fase in cui nell’area di piazza Savonarola o dei ‘voltini’ coabitavano svariate ‘bande’, e non sempre in maniera pacifica…”.

“E tu facevi parte di una banda?” mi chiede Luca, che si sta già appassionando alla storia.

“Non esattamente; avevo un paio di amici fissi, ma eravamo un po’ dei cani sciolti che osservavano con un misto di curiosità e di paura queste dinamiche, pensando comunque di esserne fuori. Finché un giorno…”

Nel frattempo siamo arrivati alla catena che delimita l’acceso alla mura all’inizio di Viale Belvedere; faccio cenno a Luca di proseguire e girando a destra, attorno al baracchino del pesce e al fruttivendolo, prendiamo via Mura di Porta Po dal suo inizio, passando tra i due piloni di marmo.

“E’ stato proprio qui, nel sottomura. Certamente fu un’imprudenza, sapevo di non dovere sconfinare. Ma per qualche commissione che dovevo fare la via più corta era questa. Non sono nato con un cuor di leone, e inizialmente pensai di aggirare la zona. Ma ricordo di avere pensato che non dovevo essere così vigliacco da allungare la strada. A una ventina di metri li vidi, vicino a una panchina e a una graziella scassata: erano in tre, tutti più vecchi dei miei otto anni e più grossi dei miei venticinque chili. Capii subito che la situazione era pericolosa: erano lì a fare niente, sembrava aspettassero proprio me. Ma per la fuga era già troppo tardi, e comunque sarebbe stato un invito irresistibile a darmi la caccia. E poi, ancora, il pensiero che non dovevo fare il vigliacco mi costrinse ad andare avanti, combattendo passo dopo passo con una paura che cresceva al diminuire della distanza che mi separava dal gruppuscolo.

Mi concentravo sui miei piedi, cercando di non accelerare il passo e tenendo gli occhi bassi, per evitare che qualcosa nel mio comportamento potesse essere interpretato come un minimo accenno di sfida”.

Siamo giunti alla base del breve sentiero che riporta sulla mura con una serie di gradini sberciati che passano sotto l’arco della scritta; alla nostra sinistra il Birago, giardinetti di terra battuta, pozzanghere, giocattoli di plastica colorata abbandonati, muri scrostati, parabole satellitari sui balconi grigi e file di panni stesi.

Risaliamo il viottolo e riprendo:

“Portavo al polso un orologio di cui ero molto orgoglioso: aveva il quadrante blu e il cinturino nero e me lo aveva regalato mio papà. Forse non era comune che un bambino di quell’età portasse un orologio così, forse tentai goffamente di nasconderlo, facendolo così notare di più; fatto sta che quando ormai speravo di avercela quasi fatta perché li avevo superati di un metro sentii la voce di quello che doveva essere il capo esclamare, in tono canzonatorio: ‘Ma guarda che bell’orologino!’.

Mi fermai. Sapevo che era inevitabile, dovevo fermarmi. Mi girai senza dire niente, guardandolo di sottecchi. Ricordo poco, una frangia lunga, un mento sollevato, un fare arrogante, una maglia a righe.

‘Allora mi dici che ore sono?’ disse lui, incrociando le braccia e gonfiando il petto allo scopo di mostrare, nell’ordine, i muscoli e l’orologio che a sua volta portava al polso, certo meno prezioso del mio.

Era una piccola provocazione, tutto sommato; probabilmente solo la mossa di apertura. Mi sono domandato spesso perché non gli ho dato la risposta che voleva: forse perché sapevo che non sarebbe comunque servito a evitare il peggio, forse perché il fatto che ci fosse un pubblico rappresentato dagli altri due che ridacchiavano mi faceva vergognare a sottomettermi. Ma penso che la vera ragione risiedesse nel fatto che quello era il mio orologio, che era bellissimo e che me lo aveva regalato mio papà. E quindi lui non aveva il diritto di fare nessuna ironia che riguardasse il mio orologio.

‘Guarda nel tuo’ gli risposi con un filo di voce.

‘Cosa?’ fece lui, che forse di primo acchito veramente non aveva capito, tanto avevo parlato piano.

‘Guarda nel tuo’ ripetei più forte.

‘Non vuoi dirmi che ore sono?’ fece lui avvicinandosi e sciogliendo le braccia fino a portarle lungo i fianchi.

‘Hai anche tu un orologio, guarda nel tuo’ ripetei in un tono che risultò una bizzarra combinazione tra quello di una disperata preghiera e quello di chi cerca con pazienza di convincere un amico un po’ tardo di comprendonio.

L’ultima cosa che vidi furono i sorrisi degli altri due che si davano di gomito; poi la nebbia e l’assenza d’aria, come se in una frazione di secondo mi avessero catapultato in un pianeta senza sole e senza atmosfera. Mi aveva colpito con un pugno serio, professionale: un montante dal basso verso l’alto al plesso solare. Il classico pugno che ti toglie il respiro, che ti fa piegare in due. E io ricordo il mio pensiero mentre mugolavo e gli occhi si riempivano di lacrime: ‘non piegarti, respira, non piegarti, respira…”.

Riuscii a non piegarmi; quando mi si snebbiò la vista vidi solo la maglia a righe che si girava e tornava dai suoi amici. Nell’assurda logica della situazione eravamo a posto così: non avevo voluto dargli ciò che voleva, ne avevo pagato le conseguenze e adesso me ne potevo andare. E così me ne andai, senza voltarmi indietro”.

Continuiamo come sempre a correre affiancati, siamo dalle parti del tiro a segno; Luca aspetta qualche secondo prima di colpire nel centro, come al solito, con una domanda:

“Lo hai raccontato ai tuoi quando sei tornato a casa?”.

Sorrido, perché nella domanda riconosco all’opera l’intelligenza del mio amico.

“No, non l’ho mai detto ai miei”.

“Come mai?”

“Per tante ragioni. Perché di solito chi subisce un sopruso se ne vergogna, perché mi sentivo in qualche modo in colpa. Perché come tutti i bambini non riuscivo a pensare che i miei genitori fossero stati bambini a loro volta, e mi sembrava che non avrebbero potuto capire. Forse temevo che sapendo di quell’episodio mi avrebbero impedito di uscire…”.

“Oppure…?” fa lui che non mi sente convinto delle spiegazioni fornite.

“Forse la vera ragione è che questa storia rappresentava qualcosa di importante che mi era accaduto e che volevo appartenesse solo a me. Il non dirlo era il germe della mia autonomia. Per la prima volta me l’ero davvero dovuta cavare da solo, e in fondo non ero scontento di come mi ero comportato”.

“Mi sembrava di vederti, mentre me la raccontavi; da un lato ora sei molto diverso, dall’altro sei sempre lo stesso”.

Le parole di Luca mi fanno stare bene; sentirsi riconosciuti, anche con i propri difetti e le proprie paure, mi sembra essere uno degli elementi costitutivi dell’amicizia.

Ci salutiamo sotto le fronde placide dell’alberone e mi dirigo verso casa.

Corro gli ultimi metri lentamente, fino al portone. Mi fermo, chiudo gli occhi e mi concentro sul mio respiro: sento il mio petto allargarsi, penso a un altro respiro, ben più difficile, di tanti anni fa.

Per un po’ rimango immobile, provando a immaginarmi cosa sarà stato di quel bambino con la maglietta a righe.

Ma poi mi riscuoto ed entro in fretta in casa perché mi è venuto in mente che devo fare una cosa molto importante: devo trovare un vecchio orologio col quadrante blu e il cinturino nero.

E’ il mio orologio, è bellissimo, me lo ha regalato mio papà.

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