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15 Settembre 2014
In occasione della mostra di Milano si ricorda il testo di don Franco Patruno in occasione della rassegna a palazzo Diamanti

Chagall e la Bibbia

di Redazione | 8 min

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di Maria Paola Forlani

In occasione dell’apertura dal 17 settembre 2014 al 1°febbraio 2015 della mostra di Chagall a Milano, “Chagall, una retrospettiva 1908-1985”, a cura di Claudia Zevi e Meret Meyer (Milano, Palazzo Reale), si vuole ricordare la splendida rassegna di Ferrara a Palazzo dei Diamanti e a Casa Cini a cura di Franco Farina e di don Franco Patruno con un testo dal catalogo “La Bibbia di Chagall (edito dall’Istituto di Cultura Casa Cini 1992) con parte del testo di don Franco Patruno.

Chagall e la Bibbia: rivissuto o racconto?

Don Franco Patruno

Può la pittura vivere e creare il silenzio?”… E ho spesso sognato quel bel giorno in cui potessi isolarmi completamente come un tempo i monaci nei loro conventi” (Marc Chagall, testo citato da Charles Sorlier, 1979). Il silenzio è l’assenza di parola o può incarnarsi nella corposità degli eventi biblici? È straordinario come la Bibbia, anche nel momento più rumorosamente narrativo, provochi una pausa esistenziale, il desiderio di andare dietro se stessi, di interiorizzare volti, gesti, parole e affetti.

Questo avviene nella lettura di fede o è patrimonio di ogni percezione disincantata che ama semplicemente il testo? La teologia ha molteplici risposte, ma l’aneddotica del quotidiano, l’esperienza singola e irripetibile, sono una teologia a partire dal soggetto che guarda, ascolta, ricostruisce i contorni della teodrammatica; qui si gioca il mistero nascosto nei cuori dove ogni modello teorico di partenza rivela il suo limite.

Per Chagall la Bibbia non è un testo accanto ad altri testi: “Fin dalla mia giovinezza sono stato affascinato dalla Bibbia. Fin da allora ho cercato questo riflesso nella vita e nell’arte. La Bibbia è come una risonanza della natura, e questo segreto ho cercato di trasmetterlo” (Marc Chagall, Prefazione al catalogo del Musée National Message Biblique Marc Chagall).

Non è una semplice dichiarazione di poetica: si veda “La creazione dell’uomo”, dove l’angelo (che guarda da dove viene il comando) aleggia in un tripudio cromatico-plastico tra l’esultanza di quelli che verranno (appaiono stupitamente acclamanti oltre la nube) e il roteare della dinamica di redenzione e salvezza intorno al sole-luce-fuoco-movimento. È un cosmo che è creato ma sembra visione di ricreazione, un cielo nuovo e una nuova terra che unisce il primo soffio (dove Dio vede che “ciò era buono”) all’ultimo messianico gesto di una escatologia ravvicinata che culmina nella Legge e nel Cristo Crocifisso. Straordinario come “ la scala” possa unire una presenza “nello studio” e “dietro la casa del calzolaio”: macrocosmo della messa in scena epifania ma pure epifania del microcosmo umano dell’umile mestiere contemplato nel paese natio. Ciò accade anche nella “Gloria” dell’arcobaleno contemplato da Noè dove l’arco di luce, spessa e grumosa, sembra far esultare i poveri di Dio, i compaesani della terra buona ed antica; ed è una strana trascendenza (e pur vera trascendenza) accompagnata dall’angelo giallo che esibisce una preziosa ala rossa, rossa come il sole della creazione. I polpacci del messaggero celeste sono solidi, ruvidi, come quelli del patriarca disteso a cui si illumina di giallo la barba a cantare del totalmente.

Se tremano gli stipiti del tempio, l’uomo è là, al centro, con le vesti caduche e splendide della santità del quotidiano, della stessa santità dei panni di Pietro e degli altri pescatori presso il lago di Galilea. Straordinario ancora come Chagall vada a Gerusalemme”…per ispirarmi e per verificare lo spirito biblico: ma è a Parigi che sono venuto a fare la mia Bibbia. Parigi, senza la cui aria l’umanità può soffocare” (testo citato da Charles Sorlier, 1979). Eresia di pittore che tanto ama la terra delle origini tanto può viverla autenticamente nel cosmopolitismo di Parigi; e non parla solo di luci ma anche di “aria”, cioè atmosfera propizia all’espressione. Lontano dalla Russia, Vitebsk sembra memorizzata dalla passione di un ricordo attualizzante, tanto più libero nella fabula tanto più vicino alla realtà: “Tutto il nostro mondo interiore è realtà, forse ancor più reale del mondo apparente (Marc Chagall, l’Artista, 1949).

E così anche per Gerusalemme, l’amata città: allontanandosi da essa la pulsione del ricordo fisico e ambientale può meglio fargli assaporare la Bibbia. Non illustra (lo dice più volte) e Provoyeur annota: “Non soltanto Chagall non illustra la Bibbia, ma non la racconta e tantomeno la predica” (Messaggio Biblico, Jaca Book, 1983). Non racconta? Avrei non poche esitazioni. Se il termine “racconto” è strettamente collegato a certe strutture della narrativa contemporanea forse sì; ma se si verifica il racconto biblico con la visionarietà di Chagall allora ci si può accorgere che, quasi misticamente, il cantore che si pone in ascolto presta icone alle parole al “prima” e al “poi”: ma la presentatività può farsi rappresentazione sequenziale seguendo i ritmi della luminosità, i passaggi della corposità, lo spazio fantastico-reale che porta lo sguardo a ricostruire la storia. Nel ‘44 scriveva: “ La letteratura la vedevo non solo nelle nature morte degli impressionisti e dei Cubisti, poiché “letteratura”, in pittura, è tutto quello che si può spiegare e raccontare dal principio alla fine”. È illuminante questo rapporto tra il racconto letterario e quello visivo, memorie del tributo della moneta di Masaccio, degli affreschi giotteschi e, perché no?, dei bidimensionali racconti delle ikone, dove anche il fondo ora entra come un “prima” e “poi” resi ipostatici. In questo racconto sui generis, anche l’atmosfera del circo viene riscattata dal dogma dell’essere arte minore tra gli spettacoli, come per i giocolieri medievali de “Il settimo sigillo” di Bergman (dove il più semplice saltimbanco, unico, vede la Vergine) o come ne “I clowns” di Fellini in cui la giostra finale si fa parabola del mondo e ipotesi di esistenza. “il circo è la rappresentazione che mi sembra più tragica. Attraverso i secoli, è il grido più acuto nella ricerca del divertimento e della gioia dell’uomo. Prende spesso la forma dell’alta poesia. Mi sembra di vedere un Don Chisciotte alla ricerca di un ideale, come un pagliaccio geniale che ha pianto e sognato dell’amore umano”.; più avanti: “Ho sempre considerato i pagliacci, gli acrobati e gli attori come esseri tragicamente umani che somigliano per me, ai personaggi di certe pitture religiose” (Marc Chagall, del testo citato da Charles Sortlier, 1979). Tutto questo non è tangenziale al Messaggio biblico, perché la “grande giostra” in cui si muovono i personaggi biblici è un personale circo dove gioie, angosce, drammi, riscosse, redenzioni sono messi in scena dalla danza degli incontri, dove lo stupore ha il volto semplice (perciò reale) di chi sogna ad occhi aperti, sapendo che il sogno nella Bibbia è chiamata a nuove visioni e ad inusitate scoperte.

La costanza dell’ispirazione biblica attraversa tutta l’attività di Chagall, senza esitazione. Si confrontino i temi dell’amore sponsale “laici” a quelli “religiosi” del “Cantico dei cantici”. Cercare l’amata non è ritrovarla fra le fessure delle rocce ma in un’accesa natura rossa, una sorte di nube gonfiata di terra, ancor meglio “pregna” di terra, come al culmine di un atto d’amore che fa fiorire l’albero di fiori gialli e bianchi mentre la colomba ha lo stesso pulsante colore della donna che, distesa sull’atteso, vede nella mano nascere e quasi esplodere fiori azzurri. Se la dominante rossa in un film come “Sussurri e grida” di Bergamn aveva significato del bisogno di tornare nel seno materno per fuggire l’angoscia di amori finiti. (…) Anche ne “Il cantico dei cantici 2” l’amata appare in una casta nudità sopra il villaggio palestinese, distesa su un groviglio di foglie rosse. Ma tutto culmina nello sposalizio in un mondo popolare in festa dove lo stesso paese-città è speculare, quasi roteasse dalla gioia nel girotondo di una rinascita dell’amore, come purificazione che unisce cielo e terra. Che la continuità dell’ispirazione di Chagall sia un fatto pressoché unico nel panorama dell’arte del ‘900 è verificabile da alcuni confronti. Matisse nella Cappella del Rosario di Vence è folgorato da una nuova inusitata missione: stilizza, porta all’esterno la sacralità della linea, smorza l’effervescenza “decorativa” del rapporto figura umana ambiente. Continuità in Rothko ad Houdson dove le pareti si trasformano in luce, come nei suoi quadri; e ciò avviene anche nella “Tate Gallery” trasformata prontamente in chiesa.

Per quanto riguarda Chagall le vetrate lo portano ad inserirsi nel grande passato delle Cattedrali e delle Sinagoghe, a misurarsi con ritmi architettonici per la preghiera e per il culto. Certo, il rapportarsi della vetrata o del mosaico alla spazialità architettonica suppone l’accortezza nel valutare nuove tecniche in rapporto alle diversificazioni luminose e ambientali; qui l’artista arriva al massimo dell’ostinazione e della puntigliosità artigianale. Ciò che però maggiormente stupisce è la continuità dell’itinerario espressivo, quasi che in una chiesa o in una sinagoga il situarsi al centro degli effetti prodotti dalla luce sia come abitare un suo quadro o una sua incisione. È vero ciò che dice Mayer quando parla di “forza di evocazione” e che le incisioni “sembrano parlare il linguaggio stesso della Bibbia”.

(…) Forse Chagall si sente “surreale” come doveva sentirsi Bosch, lontano dai grandi (veramente tali!) fedelissimi del surrealismo teorico che, a mio avviso, sono solo Manritte per la pittura e Boñuel per il cinema. Soprattutto è vigile la non accettazione di poter far riflettere senza illustrare, guardare dentro se stessi senza far catechesi, provocare salutare silenzio senza necessariamente essere nel tempio o nel monastero benedettino (dove, per altro Chagall vorrebbe spesso ritirarsi). Nel pieno delle “battaglie” sente la preghiera dei fratelli ebrei con questa annotazione – implorazione: “le loro vesti si dispiegano come ventagli. Il rumore delle loro voci penetra nell’arca, le cui porticine ora si nascondono. (…).

Ed allora pure io sogno ad occhi aperti: un futuro dove l’itinerario di Chagall sia posto “di fronte” a quello di Rouault (prima e dopo la conversione), di fronte al colore-luce di Rothko; inoltre, provare la gioia di vedere il suo mistico circo in una chiesa cistercense ed immaginare San Bernardo sulla nube rabbuiato, perché ogni racconto e colore distrae il monaco della nuda preghiera.

Non voglio piegare il sogno a scopi strumentali, ma mi piacerebbe andar su e giù per le tante scale di Giacobbe (tanto simili, in Chagall, a quelle dei carpentieri) per vedere il perché del Cristo Crocifisso accanto alla Legge. Ma qui, mi si perdoni, potrebbe uscire allo scoperto l’anima mia cattolica e potrei offuscare lo sguardo dei miei fratelli maggiori nella fede, i fratelli ebrei. Su una nube con lo stesso Chagall, sarei sospinto a grattare il cielo notturno o infinitamente solare per vedere di che pasta è fatto il mondo uscito “buono” dalle mani di Dio.

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