Attualità
10 Settembre 2014

In curdo significa “cuore”

di Redazione | 6 min

“E’ una notte come le altre”, pensai. Accelerai quindi il passo per raggiungere il bancomat di fianco al Duomo, scendendo a valle lungo la bella Porta Reno. Nel silenzio della notte, si sa, la città pare appartenerti, si instaura quel rapporto di confidenza che hai con amici a te particolarmente vicini. Ad ogni pensiero o domanda, la città risponde con uno scorcio a cui non avevi mai fatto caso, ti regala angoli nascosti dalle biciclette che solitamente sfrecciano o dai tendoni dei venditori ambulanti. Lei si presenta a te nuda, ed in intimità inizia a raccontare.

Ma non è questo il caso di quella notte. Il meccanismo non riuscì a scartare il duro involucro dei miei pensieri che da tempo m’attanagliavano. Proseguii diritto a navigatore gps attivato su quel bancomat. Unica meta, “cruise control” per rientrare. A prelievo compiuto risalii la via dei tanti ricordi, “quel crocevia rigoglioso dove si univano infinite culture” di Via S. Romano, quando ad un tratto, alzando lo sguardo, al ciglio d’un marciapiede rialzato, incontrai Fadil, una mia vecchia conoscenza.

Non ero mai riuscito ad entrare in confidenza con lui poiché il giorno mi aveva sempre rubato questa possibilità. Mi accolse col sorriso di sempre, con le sue folte sopracciglia nere e quel taglio di capelli che io ero costretto a fare alle scuole elementari per presentarmi sempre “pulito e ordinato”. Tra una battuta ed una chiacchiera, un rapido aggiornamento su cose o amici in comune, notai che i miei pensieri s’allontanavano. Sentivo che c’era qualcosa che quel ragazzo aveva voglia di raccontare ed io, nonostante l’orario, decisi di fargli delle domande.

Partii dal suo nome, Fadil, in curdo significa “cuore”. Che bello, mi fermai a pensare. La scelta del nome non è mai casuale e lui deve avere avuto una gran bella famiglia. Sulla saracinesca dietro di lui, mentre mi descriveva con precisione la terra del suo vecchio Kurdistan, vedevo proiettate come in un documentario, le rive del Tigri e dell’Eufrate, la “mezzaluna fertile”, popoli come Babilonesi, Sumeri … nomi che non sentivo sempre da quelle famose scuole elementari.
“Se esiste un Paradiso oltre la morte, sicuramente è lì che finisci”: – mi disse mentre gli occhi neri brillavano d’una luce propria, diversa da quella proiettata dal lampione posto in alto – nessun altro luogo al mondo potrebbe farmi avere un’idea diversa”.
Gli strati della pelle di Fadil ben presto divennero pagine da sfogliare, pagine di dolore, coraggio, sofferenza e che conservavano ancora macchie purpuree indelebili. Non dovetti neppure porre le mie mani su quelle pagine per voltarle, ci pensò un flebile vento che improvvisamente iniziò a soffiare da est. Anche solo sfiorarle per decidere quando interrompere il discorso e passare al capoverso successivo, sentii inaspettatamente che m’avrebbe posto nella condizione di profanatore, violento, irrispettoso. Decisi quindi d’aspettare la mossa di quel vento. Anzi, fu il cuore a scegliere per me.
Fadil ha solo 31 anni ed è ciò che in Italia chiamiamo “obiettore di coscienza”. Rifiutò da subito le armi ed il suo dovere di andare a combattere, manifestando pacificamente in Turchia. Per lui non era quella la soluzione che avrebbe portato la pace tra la sua gente, per questo fu prigioniero e torturato. Ma di questo non volle approfondire.

Sono figlio di uno stato spaccato tra Iraq, Iran, Turchia, Siria e Armenia, figlio di uno stato che non esiste più– proseguiva con sommesso pianto Fadil, disegnando con un piede tremolante, sulle mattonelle di via San Romano, la cartina geopolitica della sua terra –ma il mio popolo esiste, è vivo e combatte ogni giorno per sopravvivere contro chi vuole annientare l’amore e l’umanità”.

La sua cultura ripudia la guerra, mi disse, e la donna è equiparata all’uomo poiché Maometto la rese libera, infatti combattono fianco a fianco per difendere i propri figli, quelli che non devono sapere, quelli che non devono nascere col seme d’odio verso altri popoli.
Il suo paese a sud, fu raso al suolo da carri armati turchi, lì proprio vicino Mosul, oggi quartier generale di quei barbari dell’Isis, appoggiati, a suo dire, proprio dal premier turco Erdogan. Tante infatti sono le pagine online che fanno riferimento a questa tanto sporca quanto nascosta alleanza. A quel punto mi fece vedere video strazianti sul suo cellulare, di bambini decapitati, di corpi vivi a cui veniva asportato il cuore, poi mangiato a ruota da quelle bestie.

Suo padre morì negli anni ’90 sotto la pioggia di una delle tante rappresaglie e ben presto dovette fuggire insieme a sua madre che vive in un altro paese della Turchia. Ormai sono dieci gli anni che lo separano dai suoi abbracci ed è conscio del fatto che non potrà più averne. Fadil, infatti, fuggì dopo diversi arresti per le sue manifestazioni di pace e pagò ben cinquemila euro per poter raggiungere, dopo ben 15 giorni, l’Europa, a seguito di un viaggio metà a piedi e metà nascosto in camion. Qui in Italia ottenne asilo politico, ma il cammino fu lungo e tante furono le battaglie legali a cui andò incontro per poter stare in Italia. Non perché è bella, non perché si mangia bene, non in cerca di lavoro, non perché c’è divertimento,ma solo per non essere ammazzato: da quella gente al suo ritorno in patria. La sua fu una causa sottoposta anche al Senato della Repubblica grazie a politici diversi dai soliti clichè a cui siamo abituati, e che oggi viene annoverata ancora fra le pagine del sito istituzionale.

L’ Islam significa persona, quindi umanità, amore” – continuò Fadil –e il mio sogno è quello di vedere un mondo, non con muri, ma con ponti tra le culture, dove un arabo può essere nella condizione di poter amare una yazida, dove sunniti e sciiti si rendono conto che in entrambe le visioni del Corano, ciò che deve prevalere è l’amore e il rispetto per chi crede in qualcos’altro

L’Italia è l’unico paese ad averlo accettato, infatti in Germania il suo epilogo sarebbe stato un altro. Dopo sei mesi sarebbe stato rimpatriato, mi disse, e a nulla sarebbe valso il suo grido di dolore. Quello fu un momento in cui mi sentii davvero orgoglioso d’essere italiano.

“Oggi cammino per le strade senza paura, lavoro senza il timore d’essere torturato, ammazzato, ma il cuore è a pezzi e non capisco come faccia ancora a pompare sangue –esclamò Fadil mettendosi una mano sul petto – la mia gente muore ogni giorno, i bambini non hanno possibilità di andare a scuola, i miei cugini sono costretti al fronte, la mia mamma la vedo invecchiare dietro uno schermo senza poterla stringere“.

Erano ormai le 4.30 del mattino. Il silenzio della notte aveva annullato il tempo, aveva prodotto un’aura capace di tutelare le sue confidenze da qualunque aggressore, aveva trasformato quella magica via in quei territori descritti alla perfezione con parole e cuore, dove io ero stato accolto e mi era stata data la possibilità di guardare dentro lo scrigno d’un popolo che non aveva avuto largo accoglimento tra le pagine dei libri di storia scolastici.
Seguì un abbraccio. Lungo. Ne potei avvertire felicità e al contempo sofferenza.

Proseguii la strada verso casa con un po’ di rabbia, sempre con lo sguardo proteso verso il basso. Quel giovane a vent’anni aveva combattuto per non combattere, aveva lottato per esprimere il proprio pensiero pur conscio che un giorno sarebbe stato arrestato. Si è privato della sua famiglia, dell’unico legame verso le sue radici pur di non trasformarsi in un assassino. Ed ero ancor più rabbioso perché ero conscio del fatto che se fossi nato io al posto suo probabilmente avrei accettato certe regole pur di non morire.

Poi giunsi al portone, mi fermai. Alzai lo sguardo verso l’alto, lo stesso che mi permise di incrociare lo sguardo di Fadil. Mi resi conto d’esser contento quella notte.
Perchèlessi, quella notte.Viaggiai, quella notte.Conobbi, quella notte.Incontrai,quella notte.Vissialtre vite, quella notte. E fu così intensa che, in realtà,fu solo ieri.

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