Pensieri stringati
15 Luglio 2014

Numero 5

di Paolo Simonato | 7 min

Esco di casa.

Avverto immediatamente la violenta escursione di temperatura e umidità tra l’interno e l’esterno, tra il confortevole ambiente climatizzato del salotto e il caldo appiccicoso della strada.

In teoria me lo aspettavo e ho indossato l’abbigliamento più adeguato al clima: sugli immancabili short, a cui rinuncio solo da novembre in poi, la canotta bianca traforata e una fascia elastica bianca della Nike in testa. Eppure la prima sensazione è quasi di stupore e di vertigine, e per qualche secondo mi rifugio nella striminzita ombra del portone prima di prendere fiato e di lanciarmi in strada.

E’ un lanciarsi che è quasi un tuffarsi, un mettere sé in una condizione che si sa difficile.

Cerco di fare quello che ho imparato a fare quando mi cimento in allenamenti di questo genere: partire il più lentamente possibile, economizzare ogni movimento delle gambe e delle braccia, concentrarmi sulla respirazione.

Non avrò altri aiuti; Luca è a Milano per motivi di lavoro e come sa bene chiunque si sia dedicato a questo sport avere o no un punto di riferimento può significare la differenza tra il conseguire o meno un obbiettivo, tra il dimezzare o il raddoppiare la propria fatica.

Inizio a riscaldarmi, anche se non è esatto parlare di riscaldamento, più che altro è una graduale assuefazione all’ambiente, cercando di gestire scrupolosamente le proprie energie fisiche e mentali.

L’asfalto surriscaldato dal sole mi trasmette il suo calore attraverso la suola delle scarpe, e attendo già con un po’ troppa ansia di passare alla terra battuta e all’ombra della mura.

Penso che forse un caldo così ci deve essere in Africa; penso ai tantissimi podisti keniani ed etiopi che vedo spesso correre (e vincere) nelle gare a cui partecipo con ben altri esiti; penso alla ragazzina somala protagonista del libro che sto leggendo, Samia, che ha il sogno di partecipare alle Olimpiadi e che di giorno si allena nel cortile di terra battuta di casa e di notte sul tartan sforacchiato da proiettili della pista dello stadio Cons di Mogadiscio.

Sono salito sul terrapieno che prende inizio all’altezza dell’alberone, ma la situazione non è affatto migliorata; il sole ancora alto alla mia sinistra non si fa schermare dalle fronde immobili degli alberi che non sembrano fare altro che trattenere al di sotto di loro una sorta di tunnel di umidità e calore che devo imboccare.

Mi faccio forza e mi concentro sul prossimo punto che devo raggiungere: i bagni ducali, il cavalcavia della prospettiva, il vecchio Sant’Anna… ma il tunnel sembra restringersi progressivamente così come il mio campo visivo, la fatica aumenta e il mio passo è sempre più appesantito. Metto un piede in fallo, c’è un buco, un’apertura, una voragine. Non faccio nemmeno in tempo a maledire nella mia testa l’incuria dell’amministrazione comunale che mi trovo a precipitare nel vuoto. Lo stupore, la sensazione dello stomaco che mi risale in gola, il terrore; attendo lo schianto che però non arriva. Mi accorgo che non sto esattamente precipitando e che sotto di me non c’è esattamente il vuoto: le mie gambe, che per inerzia hanno continuato a correre, non mulinano nel nulla. Sembra quasi che grazie al loro movimento io riesca a mantenere una sorta di equilibrio, e a gestire una caduta controllata su di un terreno che si sgretola sotto i miei piedi a una velocità sincronizzata con il ritmo delle mie falcate.

E’ come una specie di enorme e grottesca ruota per criceti, o un assurdo connubio tra un ascensore e un tapis roulant: se continuo a correre riesco a mantenermi in equilibrio, o meglio, la mia sopravvivenza è legata alla mia corsa, o meglio ancora, posso sopravvivere nella misura in cui riesco a correre.

Mi sembra di capire che questo sia il meccanismo e cerco di aggrapparmi a questa intuizione per dominare il panico; il mio cuore batte a una frequenza elevatissima e le mie gambe si sono riempite in pochi secondi di acido lattico, se non riesco a riprendere il controllo del mio cervello e dei miei movimenti a breve sarò totalmente irrigidito dai crampi, le mie gambe si bloccheranno e io mi andrò a schiantare.

Non so se il turbinio assordante che sento nelle orecchie è dato dalla velocità del mio sprofondamento o dal rombare del mio sangue, non riesco a guardarmi attorno. Continuo a guardare verso il basso, ipnotizzato dal fenomeno che si riproduce: la caduta prosegue, ma si è ormai stabilizzata in un moto continuo grazie al fatto che, per quanto concesso dall’assurdità della situazione, riesco con un certo successo a ritrovare la normalità delle sensazioni che mi accompagnano nella corsa e quindi un minimo di regolarità nel mio passo.

Mi accorgo che la consistenza e l’aspetto del terreno che si sfalda e riproduce in continuazione sotto di me cambia progressivamente; dalla terra battuta della mura a una specie di sabbia chiara e polverosa a un materiale più solido, compatto, rossastro. E’ più regolare, sembra qualcosa di sintetico, ma presenta numerose rotture, crepe, buchi, fori che sembrano di proiettile. Inoltre mi accorgo di non avere più le mie scarpe da corsa: vedo ai piedi delle vecchie scarpe da tennis consumate, vedo le gambe scure, sottili, nervose, quasi infantili. Non sono le mie gambe e sono le mie, e finalmente capisco: sono Samia, sto correndo sul tartan malconcio dello stadio Cons di Mogadiscio.

Sono Samia: sto correndo con in testa la fascia elastica bianca della Nike che mi ha regalato aabe, mio padre.

Corro perché mi piace, perché quando corro prendo il vento sulla schiena e mi sembra quasi di volare.

Corro per il mio aboowe Alì, mio fratello e allenatore, che quando faccio le gare mi trasporta in una carriola alla linea di partenza perché non sprechi energie.

Corro perché voglio indossare i nostri garbasar colorati, non il burqa nero.

Corro per la Somalia e per la libertà delle donne del mio paese.

Corro perché sono inseguita dai miliziani di Al-Shabaab, che mi odiano perché sono del clan degli agbal, perché sono una donna ma sono vestita come una wiilo.

Devo correre, un paese in guerra è come una specie di enorme e grottesca ruota per criceti, o un assurdo connubio tra un ascensore e un tapis roulant: se continuo a correre riesco a mantenermi in equilibrio, o meglio, la mia sopravvivenza è legata alla mia corsa, o meglio ancora, posso sopravvivere nella misura in cui riesco a correre. Sento che si avvicinano, sento che sparano; mio padre, che doveva essere lì vicino a me, viene colpito a un piede, è azzoppato. Lui mi grida di continuare a correre, di non avere paura, che se dico di avere paura le cose di cui ho paura si credono grandi e pensano di potermi vincere.

Io continuo a correre più forte che posso, fuori dallo stadio, nella città di Mogadiscio, nel deserto, raggiungo il mare; continuo a correre, ho sempre amato il mare, vorrei correre sopra il mare o anche sotto il mare, leggera, accarezzandone il fondale; continuo a correre ma il mare sale, l’acqua sale, scendo, salgo, vado giù, risalgo, ritorno giù, ho sempre meno fiato, torno su per la terza volta, ricado in giù fino a che il mare si richiude sopra di me. Non riesco più a respirare; sono paralizzata; non riesco più a correre.

Mi sveglio nel mio letto; sono affannato, angosciato, sudato; le lenzuola sono fradice, il condizionatore chissà perché deve avere smesso di funzionare.

Accendo l’abat jour; la prima cosa che vedo, sul comodino, è il libro che stavo leggendo ieri sera prima di addormentarmi, “Non dirmi che hai paura” di Giuseppe Catozzella.

Non riesco più a dormire. Mi alzo e mi lavo la faccia. Mi viene in mente qualcosa, e vado a rovistare sul fondo del cassetto dove tengo l’abbigliamento da corsa. La trovo. E’ una vecchia fascia elastica bianca della Nike che non utilizzo da anni. La guardo, la tocco, la annuso. Me la metto in testa lentamente, come ci si veste per una cerimonia, per un funerale.

Indosso gli short e la canotta bianca traforata.

Esco di casa.

Grazie per aver letto questo articolo...
Da 18 anni Estense.com offre una informazione indipendente ai suoi lettori e non ha mai accettato fondi pubblici per non pesare nemmeno un centesimo sulle spalle della collettività. Il lavoro che svolgiamo ha un costo economico non indifferente e la pubblicità dei privati non sempre è sufficiente.
Per questo chiediamo a chi quotidianamente ci legge e, speriamo, ci apprezza di darci un piccolo contributo in base alle proprie possibilità. Anche un piccolo sostegno, moltiplicato per le decine di migliaia di ferraresi che ci leggono ogni giorno, può diventare fondamentale.

 

OPPURE se preferisci non usare PayPal ma un normale bonifico bancario (anche periodico) puoi intestarlo a:

Scoop Media Edit
IBAN: IT06D0538713004000000035119 (Banca BPER)
Causale: Donazione per Estense.com