Pensieri stringati
3 Giugno 2014

Numero 3

di Paolo Simonato | 6 min

Esco di casa.

Gli ultimi giorni di maggio hanno portato un tempo incerto, e stanotte sono franate dal cielo gocce grosse e fitte, che hanno crivellato per ore i tetti delle auto parcheggiate sotto i lampioni gialli.

Distendo le prime falcate guardando in su: non sta piovendo ma il tempo è ancora incerto, e non posso escludere che riprenda a piovere nell’arco dell’ora che dedicherò alla corsa.

La strada è bagnata, con i volantini pubblicitari dei supermercati che il vento ha strappato dalle buchette ancora inchiodati a terra, in attesa che il sole li asciughi e li scolli dall’asfalto, asfalto che dopo poche centinaia di metri si trasforma sotto i miei piedi nella terra battuta della mura.

Intercetto Luca al luogo convenuto, ci salutiamo, ci abbracciamo senza smettere di correre (un’arte che si mette a punto solo dopo anni di esperienza) e fianco a fianco, come sempre io a destra e lui a sinistra, ci dirigiamo verso la farmacia.

Iniziamo a chiacchierare del tempo, della pioggia, e visto dall’alto il sottomura, all’altezza dei bagni ducali, ci offre il verde carico e cupo dei prati inzuppati d’acqua.

Proprio per guardare verso il basso Luca non si accorge di atterrare su di una pozzanghera dal fondo particolarmente scivoloso, il suo piede d’appoggio schizza indietro e solo grazie a uno scatto di riflessi riesce a non cadere.

“Sembrava sapone!” commenta appena ripreso l’equilibrio.

“Anche tu col sapone, oggi?” rispondo.

“Come ‘anche tu’? In che senso?”

“Oggi ho avuto una discussione con Mascia rispetto al sapone. Nel bagno di sopra, che uso solo io, avevo quasi finito il sapone, voglio dire la saponetta, non il sapone liquido. Ne era rimasta solo una scheggia sottile, ormai inutilizzabile. Lei ha preso una saponetta nuova, l’ha bagnata, l’ha appoggiata alla vecchia e se la è rigirata un po’ fra le mani, di modo che sono rimaste attaccate, sono diventate una saponetta sola più grossa con una lieve gobba da una parte”.

Luca mi guarda attento, mentre affrontiamo la lieve salita lasciandoci alle spalle Porta Mare, e mi lascia proseguire senza interrompere.

“Questo gesto mi ha dato fastidio; mi ha ricordato che lo faceva mia madre, quando ero piccolo”.

“E perché ti ha dato fastidio?”

“In casa mia il messaggio che veniva ripetuto ad ogni piè sospinto era che eravamo poveri, che essendo una famiglia numerosa e – come si direbbe oggi – ‘monoreddito’, non dovevamo mai nemmeno chiedere nulla che non fosse indispensabile e dovevamo stare attenti a non fare sprechi. Io non sapevo se fosse davvero così, a dire il vero non mi sembrava; ad ogni modo quando vedevo mia mamma attaccare le due saponette mi faceva arrabbiare, forse perché mi sembrava una piccineria di cui vergognarsi o forse perché non volevo che mi venisse ricordata per l’ennesima volta la nostra condizione”.

“Ma guarda cosa mi hai fatto venire in mente” dice Luca “una storia di saponette anche la mia”.

Io lo guardo attento, mentre affrontiamo la lieve salita lasciandoci alle spalle Ercole d’Este, e lo lascio proseguire senza interrompere.

“Avrò avuto otto anni, forse meno. Mio papà aveva ancora il laboratorio di tappezzeria in fondo a Santo Stefano, prima di trasferirsi nello studio dietro casa. Qualche pomeriggio lo andavo a trovare, di solito perché mia mamma mi incaricava di portargli qualcosa da mangiare per fare merenda. Appoggiavo la bicicletta vicino alla saracinesca ed entravo nella penombra, che sapeva di tessuto nuovo e di colla, la colla che si preparava lui con la farina sul fornelletto. Lui mi salutava, mi dava un bacio e io gli allungavo il sacchetto con dentro il panino e una coppia. Gli chiedevo se potevo prendermi un crostino e stavamo quasi per cominciare a fare quello spuntino assieme, che mi piaceva perché mi sapeva di complicità virile, tra uomini che lavoravano sodo, quando lui mi fermava: ‘prima però laviamoci le mani’. Mi conduceva al lavello sul retrobottega, ci bagnavamo le mani assieme e ci passavamo il sapone; il sapone prima era sporco, secco, con dei resti di nero attaccati sopra, ma dopo un paio di giri tra le mani cominciava a fare la schiuma e tornava nuovo, pulito, fresco. E spesso era fatto come dici tu, con una scheggia di quello vecchio attaccata su un lato, perché anche mio papà faceva quello che faceva tua mamma”.

“E a te quel gesto non dava fastidio?”

“Anzi, mi piaceva!” mi risponde con gli occhi che gli brillano “mi pareva qualcosa di intelligente e di magico. Intelligente perché così si riusciva a sfruttare fino in fondo il pezzo di sapone ormai così sottile da essere inservibile. Magico perché… non so se riesco a spiegartelo”.

Le nuvole si sono allontanate e adesso fa caldo, il sole intiepidisce il terreno e solleva l’umidità, il respiro è più difficoltoso. Ci fermiamo alla catena e senza parlare ci diamo il turno alla fontanella per bagnarci i capelli.

Quando ripartiamo Luca riprende il discorso, o forse per riprendere il discorso aspetta che ripartiamo, come se di certe cose si riuscisse a parlare meglio correndo fianco a fianco piuttosto che guardandosi dritto negli occhi.

“Magico perché dopo un po’ non si sa più dove finisce la saponetta vecchia e dove inizia la nuova, la vecchia aiuta la nuova a iniziare e la nuova aiuta la vecchia a finire, ma non si sa più esattamente quando finisce. Mi sembra un modo per aggirare la fine di qualcosa stemperandola, dissolvendola nell’inizio di un’altra; mi dà un senso di passaggio e non di fine. Forse” conclude, mentre i capelli bagnati ancora gli sgocciolano addosso “mi sembra un modo per fregare la morte”.

Lo dice ridendo, penso per quel senso di pudore, di autoironia, che utilizziamo quando anche parlando con un amico sentiamo di avere portato fuori qualcosa di molto intimo, di molto nostro.

Torniamo a chiacchierare del tempo e sulla strada del ritorno il sottomura, all’altezza dei bagni ducali, ci offre il verde luccicante dei prati illuminati dal sole.

Quando rientro a casa è quasi ora di cena.

“Milla, perché non ti lavi le mani che è pronta la pappa?” propone la mia compagna.

Lei trotterella dietro di me su per le scale; la conduco al lavandino e ci bagnamo le mani assieme.

Sta per afferrare il solito dispenser di sapone liquido ma io la fermo.

“Proviamo questo” e le porgo la saponetta incriminata.

La prende in mano curiosa, la guarda, le sguscia dalle mani, ride, la raccoglie, le cade di nuovo, ride di nuovo.

Scopro che mia figlia di 4 anni non sa come si usa questo sapone, non sa fare quel gesto per me naturale di farselo girare sul palmo della mano tra il pollice da un lato e le quattro dita dall’altro per togliergli lo sporco che aveva attaccato da prima e fargli fare la schiuma.

Provo a insegnarglielo, lo riprende in mano, le ricade, ride ancora più forte.

E rido anch’io, senza pensare a Luca, a sua papà, a mia mamma.

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