Attualità
6 Settembre 2013

Scommettere su Detroit

di Elena Bertelli | 5 min

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Una lunga pausa per cantare sotto il sole con la mente aperta, liberata dai pensieri. Eh sì, ammetto che la cicala che è in me ha preso il sopravvento per un po’, ma può bastare. È tempo per le cicaliche suburbane di riassettare la tana, riordinare le idee e raccogliere le forze, che l’inverno sarà lungo, freddo e buio. E le cose da fare e raccontare sono tante, per chi ancora crede che la cultura sia il più alto potenziale inutilizzato del nostro Paese. E, per fortuna, ogni tanto si trova conforto in persone non così diverse da noi, capaci di pensare in grande. Proprio oggi, mentre rimuginavo sui contenuti di questo post mi sono imbattuta in uno di quei pensieri esaltanti, di quelli che poi ho dovuto accendere il computer per raccontarlo. State a sentire se vi va.

Francesca è nata a Torino nel 1983, ci siamo conosciute a Roma, all’università. Una cicalica in piena regola, mai ferma, a saltare da una città all’altra, a fare i mestieri più strani, come imparare le tecniche di rivestimento delle suppellettili degli yacht, mentre si studiava per l’esame di storia della critica d’arte. Sempre in prima linea nell’organizzare cene tra amici e a confezionare regali improbabili con stracci acquistati ai Magazzini allo Statuto di Piazza Vittorio. Una tipa sveglia e brillante, cui bastava una notte sui libri per passare con 30 anche con il prof più esigente. Bella, sì, con quella chioma bionda e gli occhioni blu sempre spalancati, ma anche buffa e caciarona. Di quelle persone che pur lontane per anni le senti presenti quando hai bisogno di cullarti in un ricordo. Dopo l’università, un breve periodo ad Anversa, il rientro a Torino e l’incapacità di fermarsi. Francesca si trasferisce oltreoceano, trova casa a New York, insieme a un lavoro come corrispondente per il Sole 24 Ore. Un bel cambio di rotta, passare dallo studio dell’arte contemporanea allo scrivere di economia e politica. Ma forse no.

Francesca continua a immergersi nelle correnti artistiche, un giorno leggo con orgoglio una sua intervista a una curatrice del MoMA e, poco tempo dopo, la rivedo a Roma dove mi racconta che, appena può, prende una pausa dalla Big Apple per visitare altre città e altri stati americani. Mi ricordo il racconto di Detroit, “la città più incredibile che io abbia mai visto. Dove puoi solo spostarti in macchina tra un grattacielo e l’altro e mancano luoghi di incontro come le nostre piazze…”.

Come capita inevitabilmente, passano mesi in cui ci si perde di vista finché, oggi, non mi imbatto per caso in un post di facebook che la riguarda. Clicco sul link e finisco su una piattaforma di crowdfunding sulla quale la mia amica coraggiosa ha inserito una propria idea, con l’obiettivo di trovare dei sostenitori che la finanzino.

La ragazza sabauda, che una volta mi ha salutata sfrecciando lungo Corso Francia a bordo di una Fiat 500 nuova e già ammaccata, è rimasta così colpita dalla città di Detroit, il cuore dell’industria americana dell’automobile e della musica elettronica, che, quando ne è stato dichiarato il fallimento, poche settimane fa, ha iniziato a chiedersi cosa poteva fare per contribuire alla salvezza della città e di ciò che essa rappresenta per gli Stati Uniti.

Così è nata ‘Detour in Detroit’ (www.indiegogo.com/projects/detour-in-detroit ), l’idea di realizzare una guida della città coinvolgendo persone locali, creativi e fotografi, nello strutturare gli itinerari, scattare immagini di qualità e costruire un prodotto accattivante, che possa stimolare l’interesse e la curiosità verso un luogo che, mai come nessuna città prima d’ora, offre qualsiasi opportunità a chi desidera partire da zero. Detroit è lo specchio del fallimento ma, allo stesso tempo è il ground zero da cui ricominciare, ora che una casa costa meno di uno smartphone e ogni spazio è vuoto, pronto per essere riempito. Questa vicenda è solo l’esempio di come le radici culturali possano essere trasformate in risorsa per il riscatto di una comunità sull’orlo del baratro. Uno spunto di riflessione da condividere.

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Certo, anche nella nostra tranquilla provincia non mancano le iniziative che vanno in questa direzione. Ne abbiamo già parlato. Abbiamo anche già affrontato il tema del crowdfunding, che è una valida risorsa, ma non sufficiente a risolvere il problema dell’assenza di fondi da destinare al ruolo che spetta alla cultura nello sviluppo di un Paese.

A questo punto, ci si chiede come possano, tutta una serie di iniziative nate dal basso, dalla spinta di piccoli gruppi di persone, inserirsi in un sistema ampio, che raccolga le istituzioni e gli investitori privati per rilanciare l’economia sfruttando le immense risorse artistiche e culturali della nostra terra. Perché, oggi, è diventato così importante per le aziende che vogliono ottenere certificazioni di qualità e assumere credibilità, investire in azioni mirate alla riduzione dell’impatto sull’ambiente e allo sviluppo di politiche per le pari opportunità, mentre ancora pochissime imprese si adoperano per il sostegno della cultura? Forse il rispetto per l’ambiente non va a braccetto con la tutela dei beni storico-artistici? Certo che sì, è solo che, su questo tema, le istituzioni non hanno ancora concentrato in modo programmatico i propri sforzi.

Si parla tanto di responsabilità sociale d’impresa: tutte le buone azioni che un’azienda può fare per ridurre l’impatto della propria produzione sul contesto sociale e ambientale. Esiste una commissione europea che dal 2001 lavora per regolamentare quest’aspetto, ormai imprescindibile per ogni impresa che si rispetti. Ma all’interno dei protocolli siglati, dei codici etici e delle linee guida da seguire, per raggiungere obiettivi di sostenibilità, non si nomina mai il supporto alla cultura.

Art & Business (http://artsandbusiness.bitc.org.uk/) è un’associazione non profit britannica, che, andando controcorrente, conduce costanti ricerche tese a dimostrare che l’investimento privato in cultura è strategico per l’azienda che vuole inserirsi nel tessuto territoriale e ricavare, da questo sostegno, risorse intellettuali necessarie a uno sviluppo di soluzioni strategiche per distinguersi e diventare competitiva sul mercato. È un esempio virtuoso, ma pur sempre una goccia nell’oceano.

Allora, torno a ripetere: anche in una realtà piccola come Ferrara esistono tante realtà indipendenti che hanno dimostrato di saper sviluppare valide idee e progetti culturali di alto livello, concependo ottime soluzioni, il cui valore è stato notato anche oltre i confini territoriali. Ora, credo sia necessario mettere al centro del dibattito il problema per cui queste soluzioni sono state inventate – per inciso: abbiamo infinite risorse culturali ma non riusciamo a farne un volano di sviluppo economico – , coinvolgendo tutte le componenti della società per analizzarlo insieme, questo problema che riguarda l’intero sistema. Solo allora tutte le parti potranno apprezzare le soluzioni e capire perchè c’è ancora qualcuno che scommette su Detroit.

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