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2 Ottobre 2012
Omaggio a uno dei protagonisti assoluti della scena artistica del secondo dopoguerra

Una retrospettiva su Giuseppe Capogrossi

di Redazione | 4 min

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Con “Capogrossi una retrospettiva”, a cura di Luca Massimo Barbero, aperta fino al 10 febbraio (Catalogo Marsilio), la collezione Peggy Guggenheim rende omaggio a uno dei protagonisti assoluti della scena artistica del secondo dopoguerra, presente nelle collezioni della Fondazione Solomon R.Guggenheim di New York fin dal 1958 con l’acquisizione della tela Superficie 210 ( 1957 ). Realizzata in collaborazione con la Fondazione Archivio Capogrossi, Roma, l’attesa antologica ricostruisce l’iter artistico di Giuseppe Capogrossi (1900 – 1972), con oltre settanta opere, tra dipinti e lavori su carta.

Dagli anni trenta al ’49 – ’50 Capogrossi, dopo un viaggio a Parigi, aderiva ad un tonalismo pittorico raffinato, vicino per certi aspetti, al figurativismo tonale della Scuola Romana, un tonalismo teso alla definizioni di uno spazio prospettico svolto a mezzo di piani colorati; verso il’48, cambiando improvvisamente la sua maniera pittorica, passava ad un astrattismo del tutto particolare (“Anche lavorando in questo nuovo modo continuavo a ripetere la regola delle arti visive basate da sempre su: linea, forma, colore” egli ha scritto nel ’68), nel quale elaborava una sua concezione di “continuum” che lo avvicinava, per molti aspetti, alle concezioni dello Spazialismo, dal quale infatti deriva. Arrivava poi ad un’ “identità di forma e di segno” (Argan), secondo la quale “nell’immediatezza del fatto percettivo”, il segno acquista la strutturalità dinamica della forma. Il suo segno, disposto secondo ritmi accelerati, ad occupare, in sequenze scalari, l’intera superficie del quadro, si configura sempre più in una forma simbolica, in una sorta di sigla araldica, elaborata spesso in nero su fondo bianco. Gli è sufficiente inserire un rosso al posto di un nero, ovvero dare diversa direzione alla stesura del bianco di fondo, per mutare, come qualità dello spazio, il potere della comunicazione. Perciò la geometria fondamentale dell’ordinamento resta aperta…Capogrossi nel ’68 scrive : “Come nei vent’anni precedenti al mio passaggio dal figurativo all’astratto, il mio lavoro continua a procedere nella norma seguita dai tempi più antichi: attraverso una serie di disegni, studi, gouaches, acquarelli, di chiarimento per me stesso. Ho subito e subisco spesso anche ora che non sono più giovane molte umiliazioni (ma sono sempre preferibili alle sterili lodi) ; quella che mi intristisce di più è la banale domanda – spesso in buona fede – fatta con tono di compatimento: ma seguiti sempre a lavorare con la solita forchetta? E la chiamavano anche “pettine”, “tridente”, “mano”, “scarafaggio”…a ciascun giorno il suo affanno: un muro è composto di mattoni, e bisogna andare al lavoro con sulle spalle il mattone di quel giorno e non il muro. Un monumento alla pazienza”.

Tra il 1949 e il 1950, Capogrossi assume quel periodo come data ufficiale del cambiamento radicale della sua ricerca; una data il cui significato non può sfuggire a chi la metta in rapporto con le coincidenti mosse di Burri e di Fontana che, in altre direzioni e in modi diversi, compivano una analoga svolta. E’ certamente significativo che, nella fase che prelude al mutamento, l’artista abbia guardato con penetrante interesse alle opere allora quasi dimenticate della Secessione viennese, specialmente a Klimnt : non ai temi e alla composizione, ma al tracciato grafico e cromatico, risalendo così al momento di indistinzione di simboli e segno.

Nei dipinti che meglio documentano la riflessione di Capogrossi su Klimnt e su Schile si può notare la progressiva liberazione del tratto e del colore dallo schema figurale: ma il simbolo, passando allo stato di segno, evita lo stadio intermedio della sigla emblematica. La configurazione del simbolo è mutevole, quella della sigla emblematica è rigida. Si è potuto discutere, in senso o nell’altro, sulle implicazioni simboliche del segno di Capogrossi, nessuno vi ha mai ravvisato un carattere emblematico. Ora, lo schema segnico, che diventerà tipico e ritornerà come il timbro di una nota musicale in tutta la pittura e la grafica dell’artista, può avere implicazioni simboliche inconscie: come un  segno dell’esistenza un mandala. Come nell’arte indiana, infatti, esso è un segno liberatorio che, mentre compendia nella propria figura lo spazio e il tempo, libera l’esistenza dai limiti dello spazio e del tempo.

Quel segno ha una struttura costante, è esso stesso un’unità strutturale, anzi sta proprio a dimostrare che ad una stessa struttura possono corrispondere figure sempre diverse, sicchè si vede, in questa pittura, quale sia la differenza tra struttura e figura, come accade con la prospettiva, che è una struttura costante in cui sono virtualmente implicite tutte le possibili configurazioni dello spazio.

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