Cronaca
30 Settembre 2012
Maria Antonietta Coscioni: “I pazienti non devono essere dei carcerati”

Storie tremendamente reali

di Redazione | 4 min

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di Lara Marzocchi

Un non luogo, né carcere né ospedale. Abitato da non persone, né pazienti né carcerati. È il limbo di cruda realtà che attornia oggi in Italia gli ops, sigla fin troppo sterile per indicare gli ospedali psichiatrici giudiziari. A gettare in faccia al mondo esterno la verità di quello che non è stato realizzato dopo la riforma psichiatrica della legge Basaglia è il libro di Maria Antonietta Farina Coscioni, dal titolo ‘Matti in libertà. L’inganno della “legge Basaglia”’.

La presentazione è andata in scena nella libreria Ibs per il secondo appuntamento del ciclo di incontri ‘Nuovi libri dietro le sbarre’. A tenere a battesimo a Ferrara il volume della moglie di Luca Coscioni (uomo simbolo delle battaglie etiche del pensiero laico ed etico radicale) è stato Daniele Lugli, difensore civico regionale, che parlando della Legge 180 ha ricordato che “chiudere le porte dei manicomi, probabilmente l’unico appoggio locativo delle persone con disturbi psichiatrici, senza prevedere soluzioni alternative, è stato uno sbaglio di cui oggi paghiamo le conseguenze”.

Lugli ha illustrato come il testo tratti della funzione degli ospedali psichiatrici giudiziari in Italia e di come si pone a metà tra un’inchiesta e un dossier, in quanto da un lato raccoglie le testimonianze di chi in questi luoghi ha lavorato o ne è stato ospite, e dall’altro presenta una serie di documenti relativi alle pratiche, legali e non, svolte in questi centri. Nella prefazione compaiono termini come “elettroshock”, “imbottire di farmaci” o “suicidi”, “parole che fanno parte di una psichiatria obsoleta e fiera di esserlo, una psichiatria che si concretizza con pratiche che conferiscono a chi le utilizza, un’immagine bieca, ben diversa da quella che ci si aspetta da chi ha scelto una tale professione”.

Le storie dei pazienti raccolte nel libro raccontano l’orrore di cui sono permeate le strutture adibite alla loro riabilitazione, ma non solo. Ciò che si evince nelle righe della Coscioni è soprattutto la dicotomia, espressa dal fatto che queste strutture dovrebbero curare e reinserire socialmente persone con disturbi psichiatrici e che invece, li trattano al limite, o anche oltre, l’umana tolleranza. “Parliamo di storie di esseri umani legati per mani e piedi a letti di ferro – spiega l’autrice -, che vengono nutriti solo quando qualcuno si ricorda di farlo; storie di persone abbandonate e abbruttite da un sistema giudiziario e sanitario che guarda più alla formalità che alla sostanzialità; in pratica persone lasciate nell’indifferenza e nell’oblio di leggi non applicate”.

“Negli opg, i ‘detenuti’, perché di questo si sta parlando – precisa Stefano Caracciolo, psichiatra dell’università estense -, nella quasi totalità dei casi, creano problemi di contenimento; ciò è spiegato dal fatto che quando si pongono in costrizione persone che hanno problemi con la realtà che li circonda, questi  regrediscono; occhi spenti, vuoti, involucri di esseri umani che parlano con se stessi con tono accondiscendente, il viso rivolto verso un muro… e questi sono solo gli ospiti più ‘normali’”.

Curare o essere curati in un ospedale psichiatrico giudiziario, non è certo cosa semplice; “nella maggioranza dei casi – conferma Andrea Puginotto, ordinario di diritto Costituzionale all’Università di Ferrara -, accade che, giunti al termine della misura di sicurezza, il giudice decida di prorogare di sei mesi, o un anno il periodo di cura in queste strutture. È ciò che nel gergo carcerario viene definita “stecca”, così la malattia si cronicizza e l’epilogo conseguente è la possibilità che una detenzione di ventiquattro mesi venga trasformata in una detenzione a vita, il cosiddetto “ergastolo bianco” appunto. Questo ergastolo non è costituzionale, ma di fatto è una storia che si perpetua ogni giorno, come la vicenda paradossale di Vito De Rosa, in carcere per parricidio per cinquantuno anni e scarcerato nel 2003 con la grazia da parte del Presidente della Repubblica, o come chi nell’opg di Reggio Emilia è stanziato da diciotto anni perché ha compiuto una rapina per sette mila lire con una pistola falsa nella tasca. Storie che hanno del fantastico, quasi da commedia, ma che sono tremendamente reali”.

Le porte di questi centri sono spalancate in entrata, ma serrate in uscita. Le chiavi le ha un giudice che deve valutare la pericolosità di individui. Gli psichiatrici, non vengono dimessi da tali strutture, anche e soprattutto perché non esistono più, a causa della mancata applicazione della parte dispositiva della legge Basaglia, luoghi atti ad ospitarli e reinserirli nella società, come afferma Maria Antonietta Farina Coscioni: “Gli ospedali psichiatrici giudiziari sono un non luogo, per non persone. Non sono un manicomio, non sono un carcere, non sono un ospedale e i pazienti non sono carcerati”. I dati del sovraffollamento parlano da soli, nel solo opg di Reggio Emilia vivono 245 pazienti, quando la struttura è adibita a contenerne 132. “Gli opg – rimarca Pugiotto – sono essenzialmente galere e per le finalità di cura, sono dei residuati bellici”.

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